Un museo non deve solo conservare il passato, ma porsi inoltre come obiettivo la condivisione delle conoscenze che ha accumulato. Questo non soltanto in termini di resoconti scientifici del proprio lavoro, ma anche in un’ottica puramente divulgativa, e magari a livello cittadino, in modo da incontrare le esigenze del territorio e poter strutturare attività di avvicinamento e di superamento delle barriere culturali.
Per un museo a vocazione tecnologica, questo problema è tanto più urgente quanto è difficile far comprendere ai visitatori casuali i materiali in esposizione: le storie dei protagonisti che li hanno realizzati, il contesto sociale nel quale questi si muovevano, i cambiamenti che hanno portato nel nostro modo di intendere prima e manipolare poi la realtà. In sostanza, le rivoluzioni che hanno suscitato al nostro modo di vivere.
Se possibile, il compito è ancora più complesso nel caso dell’informatica, per la quale molti dei progressi sono intangibili, e la cui materia è temporalmente così vicina da non essere ancora percepita come storica, nonostante i suoi mutamenti siano ancora più fragili da tracciare e conservare che non in altre discipline. Inoltre, l’informatica è talmente embedded nella nostra vita quotidiana da risultare ormai difficile ai più pensarla come una disciplina scientifica, che richieda qualcosa di altro che non installare applicazioni su un device o “smanettare” su un computer.
Al contrario, ogni scienza è nella quotidianità un artigianato, e non di rado è arte. La bellezza matematica è evidente nell’eleganza di un teorema o nell’ingegnosità di un algoritmo, nella robustezza di un’euristica o nella chiarezza del codice ben scritto. E i contatti col mondo dell’arte “classicamente intesa” (per mancanza di una descrizione più adatta) sono sempre stati serrati, dalla prospettiva rinascimentale di Alberti alla novecentesca arte programmata di Munari. Riflettere su tali rapporti è già portatore di una maggiore consapevolezza delle meraviglie tecniche e naturali che ci circondano.
Ma l’operazione compiuta da Francesco Zavattari si spinge oltre. L’interpretazione che propone di un concetto astratto o di un manufatto tecnologico rende la complessità di una rivoluzione scientifica con la sensibilità dell’artista. Il quale, pur non essendo un addetto ai lavori, si dimostra assai attento e partecipe della portata di certi contributi e della loro fascinazione, e la comunica a una audience che può non essere in grado di coglierne gli aspetti tecnici, ma è pronta a recepirne le suggestioni offerte e a farsene affascinare.
Ed è questa capacità di dialogare con la scienza e di rendere vicini, quasi “familiari” dei concetti spesso complessi attraverso l’opera artistica, che rende il lavoro di Francesco prezioso. È una modalità di mediazione culturale differente, nuova, quanto mai necessaria in questi tempi distratti nei quali viviamo. E che l’Università di Pisa è stata felice di poter ospitare nel suo Museo degli Strumenti per il Calcolo.
Fabio Gadducci - 2017